Tutta la fascia prealpina, dalla Lombardia occidentale fino al Veneto, è caratterizzata da affioramenti di rocce definite un tempo molasse, cioè rocce sedimentarie terrigene (che derivano dall’erosione di altre rocce) che comprendono diverse litologie: peliti (rocce formatesi dalla consolidazione di sedimento fangoso), marne (frazione argillosa e carbonatica), arenarie (sabbia) e conglomerati (granuli grossolani in matrice fine). Si sono formate diversi milioni di anni fa, dal Cretaceo (90-70 Ma) fino al Miocene (15-20 Ma), in seguito all’erosione delle Alpi che si stavano formando e al trasporto verso il bacino marino che si trovava ai piedi delle montagne nell’odierna pianura padana.
In Lombardia nord-occidentale ci sono tre formazioni riconducibili a queste rocce: il Flysch di Bergamo (tra le province di Bergamo e Lecco) e le Arenarie di Sarnico (Como) sono i più antichi e risalgono al Cretaceo, quando l'abbassamento del livello del mare sul bordo delle Alpi in emersione portò alla deposizione del materiale definito flysch. Di più recente deposizione (Oligocene-Miocene) è la Gonfolite Lombarda che consiste in un gruppo di formazioni rocciose che affiora al bordo padano della catena alpina tra Como e Varese (dalla valle del Lambro ai laghi di Monate e Comabbio), caratterizzate da una litologia dei corpi sedimentari varia, che comprende tutte quelle viste in precedenza e delle quali fanno parte anche le arenarie di Malnate.
La Gonfolite Lombarda deriva dalla sedimentazione dei detriti erosi dagli agenti atmosferici dalle Alpi in formazione e trasportati in mare, dove andavano a formare delle conoidi sottomarine. L’analisi dei microfossili contenuti nella roccia ha individuato organismi tipici dei fondali marini, mentre la struttura delle parti più grossolane (conglomerati) sembra molto simile a quella delle zone deltizie. La presenza di resti di piante continentali, indica la vicinanza delle terre emerse. Riunendo queste caratteristiche rilevate, i geologi hanno stabilito l’origine torbiditica della gonfolite, cioè la derivazione da quei depositi che si formano sul bordo della scarpata continentale, lo zoccolo che circonda i continenti al di sotto delle acque del mare. Qui i detriti trasportati dai fiumi vengono spinti al largo dalla corrente, poi trascinati verso il basso dalla gravità e formano delle conoidi sottomarine, caratterizzate da porzioni più profonde di sedimenti fini (di cui sono caratteristici i microfossili) e porzioni più superficiali con sedimenti più grossolani, che corrispondono alla zona del delta.
Il gruppo della Gonfolite, che inizialmente aveva un significato lato includendo tutte le formazioni, è stato suddiviso in due parti: formazione di Chiasso (Oligonece), a prevalenza marne, affiorante tra Como e Chiasso (Sasso Cavallasca) e gruppo della Gonfolite s.str. (Oligocene sup.-Miocene medio; spessore 2300m), dove prevalgono conglomerati e arenarie, articolato in diverse formazioni in base alla località tipo, che si susseguono dal basso verso l’alto in base al periodo di deposizione (dall’oligocene al miocene inf).
Tra di esse le Arenarie di Malnate, che affiorano da Gornate fino a Rodero, prive di microfosili e caratterizzate da strati di materiale fine di colore giallastro, dovute alla presenza di ossidi di ferro. Per la presenza di quarzo, feldspato e biotite, ma anche di interni blocchi di granito, si pensa che i granuli di questa roccia siano derivati proprio dalla disgregazione del granito stesso e la desposizione viene fatta risalire a c.a. 20 milioni di anni fa, quando ai bordi della catena prealpina si estendeva il mare.
Circa 20 milioni di anni fa, nell'epoca geologica definita Miocene inferiore e più precisamente nell'età detta Burdigaliano, un vasto mare occupava quella che oggi è la Pianura Padana e gli antenati del torrente Lanza e del fiume Olona vi sfociavano scaricando massi e ciottoli erosi dalla catena alpina in formazione, creando la conoide sottomarina.
Siamo ancora nel Miocene superiore, ormai giunti alla fine dell'età Messiniana circa 5,8 milioni di anni fa. Il clima caldo e umido persiste e i sedimenti deposti e solidificati vengono scavati in profondità dallo scorrere dei corsi d'acqua che creano la nostra stretta valle del Lanza.
Nei successivi milioni di anni che separano la nascita della Gonfolite dai giorni nostri, il mare pian piano si ritira, le valli tornano ad essere ricoperte da sedimenti fluviali e le valli vengono modellate dall'azione dei ghiacciai. Arriva l'uomo e si entra nella storia della gonfolite, che inizia ad essere sfruttata per la facilità di estrazione e lavorazione.
Già dal V secolo a.c. le popolazioni celtiche che abitavano le colline sopra Como utilizzavano ampiamente l'arenaria, in particolare per la realizzazione delle coti, pietre per affilare e affinare le punte e rimuovere le sbavature di fusione, ma non solo: a San Fermo della Battaglia nel 1875 furono riportati alla luce un tratto di muro di fondazione e un canale di pietre squadrate, mentre alla stessa epoca risale il ritrovamento di Prestino, dove nel 1966 si scoprì un parallelepipedo in arenaria con una incisione nel'antico alfabeto dei Leponzi (480-450 a.c.). L’uso della pietra continuò in epoca romana per la costruzione di torri di avvistamento, come la torre del Baradello (Como) e sembra fare la sua comparsa anche nel territorio dell'odierno Parco, con una lapide in molera molto erosa rinvenuta accanto alla torre sul colle di San Maffeo a Rodero, recante un’epigrafe latina frammentaria. Nel Medioevo conosce ampio utilizzo nell'edilizia ecclesiastica lecchese, sia per sepolture (Chiesa di Santo Stefano a Garlate) sia per l'edificazione delle chiese stesse (Chiesa di Beolco a Olgiate Molgora e San Nicolò a Lecco risalenti al secolo XI-XII). A Como era preferito il marmo di Musso, proveniente da cave sul lago e portato in città su barconi, mentre l'arenaria era utilizzata per coronamenti e particolari come gli archetti dell'abside della Basilica di San Fedele e la pala dell'altare di Sant'Ambrogio nel Duomo di Como.
Nell’area del varesotto era probabilmente impiegata in modo causale. Le prime evidenze risalgono al periodo altomedievale quando fu utilizzata nell'edilizia sacra e civile dell'antica Castelseprio (VI secolo), mentre nei secoli successivi spicca l’assenza in diverse chiese del XI e XII secolo (come quella di San Matteo a Malnate nelle parti più vecchie).
Dopo diversi decenni di abbandono, la rivalutazione delle antiche cave con la nascita del PLIS Valle del Lanza, culmina con il riconoscimento del sistema naturalistico che qui si è sviluppato quale monumento naturale, con decreto della Giunta Regionale n X/4364 del 20 novembre 2015.
L'area interessata dal Monumento Naturale è localizzata tra i Comuni di Malnate e Solbiate con Cagno, lungo il versante orientale della valle alla sinistra orografica del Torrente Lanza. Successivamente all'abbandono dell'attività estrattiva, nelle cave si è creato nel corso degl anni un peculiare sistema naturalistico contraddistinto da profonde cavità, le cave che abbiamo già imparato a conoscere in precedenza, con alte pareti verticali di arenaria e una vegetazione tipica delle valli fluviali e dei boschi misti di latifogie.
Nell'area sono presenti una dozzina cavità principali, quelle di maggiori dimensioni e facilmente raggiungibili, la maggior parte ubicate lungo il sentiero, alcune altre a mezza costa, ormai nascoste dalla vegetazione, e diverse altre piccole cavità, poco profonde e a quote differenti, esito probabilmente di tentativi di escavazione abbandonati o progressivamente ostruite da microfrane dei versanti e/o sedimentazione di materiale. Le cavità sul territorio di Malnate erano servite da una strada consortile, andata persa nel tempo, di cui rimangono testimonianze nei brevi tratti in cui ancora è riconoscibile il fondo con il caratteristico ciottolato lombardo e il muretto di contenimento della strada che verosimilmente era a una quota maggiore del fondovalle circostante. Attualmente la maggior parte delle cave sono servite dal sentiero di Fondovalle (701-801) con accessi in prossimità del Mulino del Trotto e del Mulino Bernasconi, mentre alcune rimangono raggiungibili dal tracciato rimaneggiato dell'antica consortile di Malnate che si imbocca in località Bagoderi dall'omonima via.
Tutte le cave mantengono una loro identità, ma si riconoscono elementi morfologici che le accomunano: tutte sembrano avere un foro posto nel soffitto della camera, che probabilmente fungeva da presa di luce ed aria assicurando condizioni di vivibilità durante le escavazioni, e in tutte le cave si riconoscono i tipici solchi sulle pareti, lasciati dagli scalpelli durante l'estrazione dei blocchi, e dei fori di forma più o meno quadrata probabilmente dovuti la montaggio di impalcature. Il pavimento sembra mantenere, almeno per le cavità più grandi, la morfologia lasciata al termine delle attività di escavazione: in alcuni tratti rimane la roccia nuda, in altri sedimenti sabbiosi intervalati da massi di crollo staccatisi dalle volte e, in particolare in corrispondenza degi accessi, accumuli di sabbie di dissoluzione, creatisi in seguito al distacco di croste di arenaria dalle superfici più esposte agli agenti atmosferici. Anche il numero di camere varia da cava a cava, la più grande, la "Cave dei Vernaci", è composta da ben cinque camere, le più piccole da un solo antro. Le diverse camere sono tutte separate da setti rocciosi, lasciati dai cavatori per garantire la stabilità delle camere stesse.
In tutte le cave sono presenti e diffusi dei fenomeni di dissesto (distacco di massi dalla volta, crolli di setti e pilastri, instabilità in corrispondenza delle discontinuità tettoniche e degli ingressi) che hanno portato alla chiusura per motivi di sicurezza degli antri con apposita ordinanza dei Comuni di Solbiate con Cagno e Malnate.
Terminata l'attività estrattiva, la natura si è pian piano ripresa possesso degli antri lasciati dall'uomo. L'unico studio approfondito sulla biologia delle cave è stato condotto dal Gruppo Speleologico Prealpino nella "Cava della Strìa" nei pressi della stazione di Malnate-Olona lungo la ferrovia della Valmorea nel progetto di fattibilità del PLIS Cintura Verde Sud Varese. Le cavità di quell'area, site in Comune di Varese, rimangono al di fuori dell'area del Monumento Naturale, ma è plausibile non differiscano molto dal punto di vista "biologico" con quelle situate lungo l'asta del torrente Lanza, anche da osservazioni sommarie e rilevamenti casuali effettuati nel corso degli anni in queste ultime.
Tutte le cave sono accomunate dalla presenza di pozze di acqua, più o meno profonde, createsi dall'infiltrazione di acqua dalla roccia. E dove c'è acqua, c'è vita. Non è difficile, infatti, trovare nel periodo primaverile le larve delle salamandre (foto a sinistra) e le rane rosse (tra cui una rara osservazione della Rana termporaria, foto a destra), che nei tranquilli specchi d'acqua depongono le uova al riparo da predatori e siccità.
Lo studio svolto nella "Cava della Strìa", introdotto in precedenza, ha rilevato anche la rara presenza di larve acquatiche di insetti e coleotteri e di diversi crostacei del genere Niphargus, una specie sotterranea stigobia (tipica cioè di un ambiente acquatico cavernicolo), cieca, depigmentata e con caratteri che la collocano tra le forme maggiormente specializzate per la vita ipogea, come indicato dal corpo snello e dalle appendici allungate. Nell'area asciutta circostante sono stati repertati alcuni coleotteri adulti, carabidi e cholevidi.
Dal punto di vista botanico, le pareti più esterne e umide sono ricoperte da manti di muschi e particolari specie vegetali chiamate "epatiche", del genere Conocephalum (Conocephalum conicum foto a sinistra). Tra le fenditure delle rocce e sui piccoli accumuli di sabbia, si sviluppano le felci del genere Asplenium (foto a destra).